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O pensamento iconografico de florenski
Tipologia: Transcrições
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Introduzione La riflessione di P.A. Florenskij^1 è quanto mai attuale. Dopo la damnatio memoriae decretata dall’intellighenzia russa e durata circa cinquant’anni, il pensiero florenskijano è oggi un sentiero fecondo da percorrere, perché la sfida culturale da affrontare è la falsificazione della pretesa razionalistica e dell’astrattismo, effetti del paradigma del pensiero moderno antropocentrico. P. Florenskij, infatti, si batte contro la cultura iconoclasta della società occidentale contemporanea, trionfo del razionalismo soggettivistico, individuando nella filosofia moderna l’origine della sistematizzazione razionale della realtà nella dimensione visibile, l’unica esperibile in ambito conoscitivo da parte dell’uomo, privata così della sua dimensione misterico-simbolica, antinomica nella sua datità visibile-invisibile, immanente-trascendente, finito-infinito. Per questo P. Florenskij elabora un’analisi rigorosa del manifestarsi della Verità non per com-prenderla ma per ripensare le condizioni di possibilità di apertura ad essa in quanto ‘origine e fine’ della struttura ontologica dell’uomo: essere imago Dei , icona di Dio perché icona del suo Archetipo, di Gesù Cristo nel cui Volto la TriUnità rivela se stessa come Amore. Nel pensiero di P. Florenskij Verità e Amore sono inscindibilmente correlati: infatti «l’attività spirituale nella quale e per la quale è data la conoscenza della ‘colonna della verità’ è l’amore»^2. Nel volto di Gesù Cristo, Prototestimone del Padre, si rivela la Verità dell’Amore trinitario secondo una ‘logica del paradosso’ che apre all’ intellectus fidei^3 nel mistero dell’Incarnazione, di cui il dogma calcedonese è la formula teologica. Poiché il Figlio di Dio si è incarnato Egli, come uomo, può essere rappresentato: «all’affermazione che Cristo è l’immagine del Dio invisibile non può corrispondere la traduzione in immagine della parola della Sacra Scrittura e nemmeno la rappresentazione della figura divina con mezzi della fantasia umana, derivati da concezioni del divino pre-cristiane. […] Cristo è una Persona unica. […] Il Nuovo Testamento adopera il concetto di ‘immagine’ per descrivere il carattere unico del rapporto del Figlio con Dio, con il Padre; allora anche ogni ritratto di Cristo deve necessariamente avere una forma individuale, non avendo Cristo assunto la natura umana solo in astratto, bensì in concreto come natura singola. […] Solo se si raffigura questa natura concreta nella rappresentazione può trasparire qualcosa dell’eccezionale rapporto intercorrente tra il Padre e il Figlio e tra l’unico Figlio e il Padre»^4. Non solo la parola ma anche l’immagine può evocare il mistero di Dio che si incarna. Delegittimando in questo modo l’aniconismo veterotestamentario, nel cristianesimo si sviluppa il linguaggio iconico, nel quale convergono filosofia, teologia, arte e liturgia. L’icona, diaframma ( granica ) tra mondo visibile e mondo invisibile^5 , è il «luogo del confine, porta re(g)ale verso
l’incontro tra immanente e trascendente, fenomenico e noumenico, simbolizzante e simbolizzato»^6 , unità simbolica per cui «colui che conosce e l’essenza conosciuta si uniscono nell’atto della conoscenza in una bi-unità indivisibile che non si fonde»^7. Osserva N. Valentini: «Per Florenskij […] l’icona dischiude nelle pieghe del simbolismo ontologico il significato ultimo della persona e del cosmo, che ha il suo compimento spirituale nella presenza del Mistero, nel dono d’amore. In tal senso allora, l’icona diventa il rimedio al male del mondo, il superamento delle sue discordie, la via verso la trasfigurazione santificante dell’uomo»^8. Scopo di questo articolo è presentare, sinteticamente, il pensiero iconico^9 di P. Florenskij secondo tre prospettive tra loro correlate: quella filosofica, quella liturgica e, infine, quella antropo- teologica. Nel primo paragrafo presenteremo un breve excursus storico-teologico sulla riflessione ecclesiale circa l’immagine di Cristo e la separazione tra la Chiesa d’Oriente e la Chiesa d’Occidente circa la concezione e la funzione dell’immagine sacra. Nel secondo paragrafo esporremo il pensiero florenskijano sull’icona^10 , non in quanto studio storico-artistico^11 ma come parte importante della sua ‘ Weltanschauung integrale’^12 , tesa al recupero del significato estetico- rivelativo della realtà contro la pretesa riduzionistica della Weltanschauung moderna. Nel terzo paragrafo, a partire dall’epistemologia del simbolo di P. Florenskij analizzeremo il valore liturgico e quindi ecclesiale dell’iconostasi, pienezza rivelativa dell’icona, ‘porta regale’ per accedere alla contemplazione del Regno di Dio, finestra che rivela alla contemplazione dei fedeli il volto dei santi in quanto testimoni di Gesù Cristo, Prototestimone del Padre. Nel quarto paragrafo, infine, approfondiremo il significato del volto nel pensiero iconico di P. Florenskij, sottolineando come in Gesù Cristo, Volto d’Amore del Padre, l’uomo possa cogliere l’autentica struttura ontologico- esistenziale in quanto egli stesso icona di Dio.
1. Una questione ecclesiale: l’immagine di Cristo tra Oriente e Occidente La riflessione teologica sull’immagine di Cristo si sviluppa in tutta la storia della Chiesa. L’arte protocristiana è condizionata da un fattore ‘ ad intra ’, l’aniconismo veterotestamentario, e da un fattore ‘ ad extra ’, l’ellenismo, il cui orizzonte culturale è il platonismo. Dai primi decenni del IV secolo vi è uno sviluppo progressivo del pensiero teologico sulla concezione e sulla funzione dell’immagine sacra, non come raffigurazione (idolo) ma come luogo della presenza del divino (icona), poiché il suo fondamento è il mistero dell’Incarnazione. Infatti, la domanda su cui verte la speculazione filosofico-teologica è se, e come, sia possibile ‘circoscrivere’ in un’immagine la Parola di Dio incarnata. Dal IV all’VIII secolo la riflessione dei Padri della Chiesa sull’icona trae la
dell’immagine sacra come «espressione psicologizzante di un sentimento religioso del tutto privo di interesse dogmatico»^24 , che motiverà successivamente un sentimento devozionistico^25. La teologia orientale insiste invece sul significato realistico-simbolico-veritativo dell’immagine sacra: assistiamo così all’evoluzione di una riflessione teologica per la quale l’immagine di culto, da rappresentazione, si “trasforma” in icona. Si arriva, così, a definire che in essa «il prototipo rappresentato è in qualche modo presente nella sua immagine, che diventa icona appunto in quanto partecipa alla natura divina del rappresentato»^26. Per questo, secondo quanto sancito dal Concilio di Nicea II del 787, è lecito scrivere icone rispettando il canone e rivolgere ad esse il culto di venerazione ( proskunesis ). Grazie quindi al contributo della teologia ‘orientale’ l’icona ‘è’ il punto di contatto relazionale tra la via discendente e quella ascendente, la possibilità di comunicazione tra l’immanenza e la trascendenza, da cui il motivo teologico centrale della teologia dell’icona, cioè la possibilità di scrivere l’icona di Cristo perché: 1) il Verbo di Dio incarnato ‘è’ l’immagine del Padre e l’agire trinitario non annulla l’unicità e l’unità dell’essenza divina: il paradosso della Trinità, di cui Gesù Cristo è l’immagine simbolica, è reso contemporaneamente possibile e attuale dalla logica dell’amore; 2) Gesù Cristo, in quanto ‘ icona del Dio invisibile ’ ( Col 1,15 ), è il ‘simbolo archetipico’ che rende possibile la scrittura e l’interpretazione dell’icona come una finestra aperta sul mistero trinitario, paradosso questo che apre alla ragione la via della conoscenza integrale della verità, a partire da quella della relazione intratrinitaria ed economico-salvifica, per arrivare a quella del creato, della singola essenza ed esistenza personale di ogni uomo, fino a comprendere tutta la storia. Proprio per questo l’icona «sarà destinata ad assumere nella Chiesa orientale la sua attuale molteplicità di funzioni: teologica (continuazione della rivelazione); liturgica (luogo, come la messa, di incontro con il divino); sacramentale (manifestazione della presenza mondana del sovrannaturale)»^27. Per tale concezione realistico-simbolica^28 , l’immagine di Cristo è correlata al suo significato intrinseco, cioè di ‘finestra’ sul mistero, di simbolo essa stessa, ovvero di linea di confine tra il visibile e l’invisibile, tra l’immanente e il trascendente. Il principio costitutivo dell’immagine cristiana in Oriente è, e rimarrà, il suo carattere rivelativo poiché l’icona, in quanto immagine, «non ha nulla a che vedere con la semplice raffigurazione più o meno fantasiosa di uno specifico personaggio appartenente all’immaginario cristiano, ma si caratterizza invece come una rappresentazione che in modo misterioso rende presente proprio colui o colei che essa tratteggia»^29. Per riassumere, possiamo usare la locuzione ‘ per visibilia ad invisibilia ’: l’icona è il luogo- paradosso dell’incontro del visibile e dell’invisibile e quindi non è mimesis , copia, rappresentante che satura in sé il rappresentato. Nell’icona l’invisibile non si nasconde ma si manifesta, poiché essa
è epifania dell’Essere, luogo teofanico per eccellenza: rende visibile l’invisibile lasciandolo invisibile, poiché è apertura ad una dimensione-altra dialogica e, proprio per questo, ontologicamente differente dall’idolo. L’identità non di materia o di essenza ma di somiglianza tra l’Archetipo e l’immagine che l’icona manifesta, determina uno scarto tra simbolizzante e simbolizzato, il quale garantisce non la rappresentazione dell’Archetipo, come l’idolo, bensì la sua presenza simbolico-rivelativa. In sintesi, secondo la teologia dell’icona, il volto iconico di Gesù Cristo manifesta l’ipostasi incarnata del Figlio di Dio, la ‘visibilità’ dell’invisibilità di Dio. La differente ‘ermeneutica teologica’ tra la Chiesa di Occidente e quella di Oriente sull’immagine sacra, a partire da una diversa elaborazione dogmatica dei contenuti dottrinali della fede, si fa in seguito ancora più marcata: infatti «la separazione tra le due confessioni cristiane, sancita definitivamente nel 1054, [è] progressivamente diventata anche la separazione tra due concezioni antitetiche di immagine»^30. Anche se nell’arte occidentale medievale è possibile scorgere chiari riferimenti alla produzione iconica orientale, secondo H. Pfeiffer «talune immagini occidentali si avvicinano alla concezione della Chiesa orientale, o perché vennero create durante il Medioevo allorchè la civiltà occidentale subì profondamente l’influsso di Bisanzio, o perché per il loro soggetto – la trasfigurazione o la risurrezione di Cristo – lasciano trasparire anche nella forma la concezione figurativa teologico- orientale»^31. Quali sono gli elementi che caratterizzano questa ulteriore separazione? Nella Chiesa d’Oriente si conserva la concezione realistico-simbolica dell’immagine sacra, secondo la quale l’icona ‘è’ presenza e manifestazione dell’Archetipo. Questa teologia della ‘presenza’ si fonda sulla dimensione dogmatico-rivelativa dell’icona in relazione alla sua ‘forza transitiva’^32. Tuttavia, dall’età moderna anche in Russia la produzione iconica sarà influenzata dal naturalismo rinascimentale e dall’allegorismo, categorie proprie della concezione iconica occidentale, «fino ad abbandonare totalmente il canone bizantino e perdere di vista i suoi presupposti teorici»^33. Ciò nonostante, tra il XIX e il XX secolo si attesta proprio in Russia un movimento di rinascita filosofico-religiosa^34 in cui occupa un posto di primaria importanza la riscoperta dell’icona quale espressione della cultura russa^35 , poiché per l’anima religiosa russa l’icona è «luogo teofanico per eccellenza, […] equilibrio perfetto di bellezza sensibile e luce divina, di sapienza umana ed ispirazione mistica»^36. Uno dei maggiori esponenti del gruppo di intellettuali che lavorano a questo progetto è P.A. Florenskij, per il quale «l’arte non viene concepita separatamente dal pensiero scientifico, filosofico e teologico, […] ma all’interno di una visione complessiva del pensiero e della spiritualità cristiana, che nasce dal culto liturgico, sorgente della somma bellezza spirituale»^37. P. Florenskij è quindi interessato al recupero del significato dell’icona in quanto simbolo per
concezione dell’immagine come « riflesso, mimesi del visibile »^43. Per questo l’analisi del Nostro prende avvio dallo studio dell’utilizzo, nell’arte rinascimentale, della prospettiva lineare^44. Egli considera tale tecnica prevalentemente illusionistica^45 poiché, tramite questa, l’uomo si pone in una posizione centrale ed equidistante con il creato, condizionando la propria percezione e quindi la conoscenza della realtà. Privilegiando l’unico punto di vista del soggetto come esclusiva espressione della verità, si crea un’immagine illusoria, «posta in un triangolo chiuso: l’artista, la sua opera, lo spettatore. L’artista esegue l’opera e suscita l’emozione nell’anima dello spettatore: l’insieme rimane chiuso nell’immanentismo estetico. Se l’emozione diviene esperienza religiosa, ciò è dovuto alla capacità soggettiva dell’uno o dell’altro spettatore di provarla»^46. La critica di P. Florenskij si indirizza, dunque, verso il soggettivismo solipsista dell’uomo rinascimentale: «Così sorge sul terreno rinascimentale la concezione del mondo di Leonardo – Cartesio – Kant; e in questo modo sorge anche l’equivalente di questa concezione del mondo nelle arti figurative: la prospettiva. I simboli pittorici devono ora essere prospettici perché questo è un mezzo tale da unificare tutte le rappresentazioni del mondo, secondo il quale il mondo viene letto come una trama unitaria, indissolubile e impenetrabile di relazioni kantiano-euclidee, concentrate sull’ “Io” di colui che osserva il mondo, ma in modo tale che questo “Io” sia esso stesso un certo punto focale immaginario del mondo, inerte e speculare»^47. Gli artisti rinascimentali cioè propongono il naturalismo come l’unica rappresentazione mimetica del reale^48 , pretendendo così di sottomettere la realtà alla sola dimensione estesico – percettiva del singolo soggetto, allontanandolo in tal modo dalla verità del mondo, costituito invece da un’infinità di punti focali aventi ognuno la propria prospettiva. Inoltre, secondo la riflessione di P. Florenskij, la prospettiva lineare è una tecnica pittorica caratteristica di un determinato periodo storico: per questo non può essere considerata come l’unica costruzione in grado di rappresentare fedelmente la realtà^49. Non solo: per il Nostro la pretesa dell’arte rinascimentale di de-finire compiutamente il reale, non considerandone la complessità derivante dalla sua struttura misterica ma fermandosi dimensione fenomenica degli enti, rende il naturalismo impossibile^50. Per P. Florenskij, quindi, l’immagine naturalistica suggerisce l’idea dell’originale^51 ma non la riproduce, poiché «non c’è alcuna aderenza al modello, ma tutto si svolge nell’invenzione priva di riferimento oggettivo in cui ogni artista dice qualcosa di suo, senza essere in grado di esprimere la verità della vita»^52. L’applicazione della prospettiva lineare come unica e autentica ‘forma significante’ dell’opera d’arte, avente come unico polo relazionale il soggetto, ha causato una deformazione del significato e della funzione dell’immagine sacra, ridotta così a immagine-idolo: un’immagine cioè che
allontana il soggetto dalla conoscenza della Verità, poiché l’univocità prospettica elimina ogni informazione simbolica del reale. Per questo, all’univocità soggettivistica della prospettiva lineare rinascimentale il Nostro contrappone la tecnica della prospettiva rovesciata^53 , la quale rivela la possibilità-altra di rappresentazione del rapporto dell’uomo con la realtà e i suoi simboli^54 : tale relazionalità è dinamica e non statica, come accade invece nella prospettiva lineare e quindi nell’arte rinascimentale. Nel suo articolo “ La prospettiva rovesciata ”^55 , P. Florenskij, analizzando le icone russe dal XIV al XVI secolo, apice dell’iconografia^56 , inizia la sua dissertazione affermando che gli elementi raffigurati nell’icona «sono in stridente contraddizione con le regole della prospettiva lineare»^57 , tanto da poter essere considerati errori di disegno: l’icona infatti mostra lati o parti delle figure che non possono essere viste simultaneamente^58. Questi errori, però, non sono frutto di un’imperizia tecnica degli iconografi^59 ma l’applicazione cosciente di un metodo pittorico alla cui base vi è la prospettiva rovesciata o inversa^60 , tecnica che si caratterizza per la capacità di manifestare, in netto contrasto con l’unilateralità della prospettiva lineare, la «policentricità della rappresentazione, [per cui] il disegno è costruito come se l’occhio guardasse le varie parti di questo cambiando di posto»^61. Ciò permette allo spettatore di cogliere la dinamicità dello schema metafisico del raffigurato^62 , poiché nell’icona «lo spazio rappresentato è incluso nello spazio reale senza discontinuità. La rappresentazione è limitata al primo piano e in questo modo le figure rappresentate nell’icona e le persone che si trovano davanti ad essa sono situate in uno stesso spazio»^63. Quindi la prospettiva rovesciata rivela che nell’icona, a differenza della rappresentazione rinascimentale, ciò che riveste maggiore importanza è la relazione spazio – spettatore e non solo il punto di vista del pittore e l’atto interpretativo di colui che guarda^64. Scrive a tal proposito P. Florenskij: «Bisognerebbe rendersi conto una volta per tutte del vero significato della prospettiva: questa non è qualcosa di positivo, il punto di vista non ha determinazioni e caratteristiche positive proprie; viene determinato esclusivamente in modo negativo: esso è “non ciò” che sono tutti gli altri punti; pertanto contenuto della prospettiva si può definire soltanto la negazione di ogni altra realtà rispetto a quella del punto dato. Se infatti si ammettesse una realtà al di fuori di tale punto, sarebbe possibile anche un altro punto di vista, e perciò il postulato di base della prospettiva, l’unità prospettica, verrebbe radicalmente violato»^65. Cosa dunque distingue l’icona dall’immagine rinascimentale? Non si tratta solo dell’applicazione di differenti tecniche prospettiche ma di ciò che l’iconografo vuole ‘testimoniare’, in ‘immagini e colori’, di ciò che ha visto nella sua esperienza spirituale, perché «l’icona, come fissazione e manifesto, [è] annunzio a colori del mondo spirituale»^66. Cerchiamo quindi di comprendere quale tipo di esperienza, secondo P. Florenskij, è all’origine della scrittura dell’icona che differenzia questa da altri tipi di immagini religiose.
Nella sua essenza l’icona è “rivelazione” e “testimonianza”, perché non è una di-mostrazione ( demonstratio come prova scientifica) ma una ‘ostensione’ ( monstratio )^82 della Verità che nell’esperienza spirituale si dona allo sguardo dell’ ikonnik. Quindi l’icona non è una rappresentazione di un modello, una semplice ri-produzione di un originale, ma ‘è’ l’originale’ essa stessa, come testimonia il Nostro: «Ecco, guardo un’icona e dico tra me e me: “è Lei”, non la sua raffigurazione ma Lei stessa, contemplabile per mezzo e con l’aiuto dell’arte iconografica. Come attraverso una finestra io vedo la Madonna, la Madonna stessa, e prego Lei, viso a viso, e giammai la Sua raffigurazione. E nella mia coscienza non c’è alcuna raffigurazione: c’è la tavola con i colori e c’è la Madre Stessa del Signore»^83. Nell’icona dunque non c’è posto per la soggettività: infatti se c’è un’esperienza spirituale originaria, cioè una relazione ‘ontologica’ con l’Archetipo, «il segno sensibile si riempie di linfe vitali diventando, tuttavia, essendo inseparabile dal suo archetipo, non già un archetipo ma l’onda di diffusione o una delle onde di diffusione suscitate dalla realtà»^84 : solo così «la raffigurazione scopre il proprio contenuto spirituale»^85. Per questo l’icona è uno «strumento di conoscenza del sovrasensibile, [il cui scopo è quello] di condurre la coscienza nel mondo spirituale, mostrare “spettacoli misteriosi e soprannaturali”»^86. Il valore veritativo dell’icona si attua a partire dal singolo dettaglio dell’immagine iconica: nell’icona è importante il ‘tutto’ dell’immagine^87 a partire dal singolo elemento. Sia le materie utilizzate, che fanno parte di tutto il mondo vivente^88 , in particolare i colori con il loro significato simbolico^89 , sia la sequenza di utilizzo delle materie, la stessa tecnica iconografica^90 e la superficie su cui si lavora, formano la struttura ontologica dell’icona, che trae il suo significato dalla Rivelazione di Dio nel mondo. Per definire meglio questi concetti, P. Florenskij si sofferma sulla descrizione dell’uso dell’oro, che in un’icona canonica è fondamentale perché riproduce la profondità della luminosità, cioè il «riversarsi della luce nello spazio»^91. Infatti, l’oro della razdelka e dell’ assist^92 non è abbellimento ma presenza della realtà, poiché «si riferisce all’oro spirituale, la luce ultraceleste di Dio»^93. Questa luce non è astratta, esterna, inconoscibile, ma concreta, l’ossatura ontologica dell’oggetto in quanto causa oggettiva della sua forma visibile: di conseguenza per il Nostro «la luce è il principio creativo trascendente delle cose, che mediante queste manifesta se stesso ma in queste non si esaurisce»^94. Anche in questa sua analisi P. Florenskij sottolinea la differenza tra l’iconografia e la tecnica pittorica occidentale: se in questa occupa un posto importante il rapporto chiaro-scuro nell’immagine, e l’oro, quando utilizzato, è considerato semplicemente un «oggetto al naturale [in quanto] distrugge l’unità dello stile spirituale del dipinto»^95 , nella pittura di icone l’iconografo, muovendo dall’oscurità alla luminosità, dalla tenebra
alla luce, utilizza l’oro come origine del procedimento per emersione della figura, prima manifestazione dell’essere (dell’immagine), inizio del processo di incarnazione^96 e non come fonte di luce esterna. P. Florenskij pone così in relazione ontologica l’icona, immagine fatta di luce perché ‘creata sulla’ metafisica della luce , con la creatio ex nihilo di Dio: egli afferma infatti che «l’esecuzione di un’icona, di questa ontologia concreata, ripete i passi basilari della creazione Divina, dal nulla, dal nulla assoluto, alla Nuova Gerusalemme, la creazione santa»^97. In rapporto alla Verità che l’icona manifesta, occorre sottolineare che l’ultima condizione affinché sia garantita l’autenticità del carattere ontologico-rivelativo di un’icona, così da essere accolta come protorivelata^98 , è il riconoscimento da parte della Chiesa mediante l’apposizione del nome all’immagine^99 e il rito della benedizione^100 , gesti che rendono l’icona un sacramentale. Afferma infatti il Nostro: «Un’icona diventa propriamente tale solo quando la Chiesa ha riconosciuto la conformità dell’immagine raffigurata all’Archetipo da raffigurare oppure, in altre parole, quando la Chiesa ha dato un nome all’immagine. Il diritto di dare il nome, cioè di affermare l’auto-identità della persona raffigurata sull’icona, appartiene solo alla Chiesa»^101. Infatti, non è l’iconografo a firmare l’icona perché questa, quando definita canonica, appartiene sostanzialmente all’opera collettiva della Chiesa^102 , alla Tradizione e al Magistero^103. Questo perché l’icona, originata dalla e nella Luce, mostra la verità universale, cioè «il dogma, la formula d’oro del mondo invisibile che si unisce, senza però mischiarsi, alle formule colorate del mondo visibile, che appartengono alla scienza e alla filosofia»^104. Di conseguenza «la Chiesa cerca di assicurare sempre che ci sia tra le definizioni testimoniali quel filo conduttore che parte dallo stesso Cristo Prototestimone e arriva fino al nucleo della personificazione ecclesiastica»^105. Per questo «ogni icona […] deve testimoniare possibilmente in maniera viva la realtà autentica dell’altro mondo»^106. Tale concezione realistico-ontologica dell’immagine ha la sua origine nella tradizione patristica orientale e, in particolare, nella dottrina delle ‘energie increate’ di Gregorio Palamas^107 e nella tradizione esicasta bizantina: P. Florenskij assume questi riferimenti filosofico-teologici «nella convinzione che non si dia essenza senza manifestazione e, reciprocamente, che ogni manifestazione sia manifestazione di un’essenza»^108. In tal modo P. Florenskij rielabora, a partire dalle definizioni dei Concili iconofili, una concezione del simbolo iconico incentrata sul principio di incarnazione^109. Infatti, per il teologo ortodosso «non può darsi una visibilità dell’invisibile al di fuori della mediazione corporea»^110. Di conseguenza per P. Florenskij «il significato dell’icona sta proprio nella sua razionalità concreta o nella sua concretezza razionale, nella sua incarnazione. […] La pittura di icone “è” metafisica, così come la metafisica è una pittura di icone a
che è intelligenza^118 ( intus-legere ) di una presenza-assenza, cioè su una conoscenza ‘simbolica’ dell’Assoluto. Di conseguenza l’iconografo, a differenza dell’artista rinascimentale, «non irretisce la realtà visibile, che pure presenta realisticamente, in uno schema esteriore deciso arbitrariamente, ma adegua la raffigurazione allo spessore simbolico del reale»^119. Ciò significa che la dimensione oggettivo-realistica del simbolo rende l’icona l’autentico luogo della presenza rivelativa dell’Archetipo, perché Lo manifesta nascondendolo, garantendo così la reale distanza tra simbolizzato e simbolizzante in una relazionalità autentica^120 , evitando in tal modo la creazione di un idolo. In sintesi, l’icona è «qualcosa di ‘non visibile’ di cui il visibile è e si fa carico» 121 : ha, cioè, una struttura simbolica. Il simbolo, osserva L. Žák, è «una realtà “tautegorica”. Non si tratta, cioè, di una semplice rappresentazione o allegoria, tanto meno di un segno o rimando, ma di “una realtà che è più di se stessa”. Nel senso che il simbolo è il “luogo” del rivelarsi/darsi stesso di ciò che esso simboleggia, è in qualche modo parte dell’alterità stessa a cui rinvia»^122. In una lettera del 1920 indirizzata ai propri figli, P. Florenskij scrive: «Per tutta la vita ho pensato, in sostanza, a una sola cosa: al rapporto tra fenomeno e noumeno, al rinvenimento nel noumeno nel fenomeno, alla sua manifestazione, alla sua incarnazione. Sto parlando del simbolo. E per tutta la vita ho riflettuto su un solo problema, il problema del SIMBOLO»^123. In poche righe il filosofo russo indica il simbolo come la chiave di volta della sua ricerca e della sua ‘ weltanschauung integrale ’: in questa prospettiva ermeneutica evidente è il totale rifiuto della riduzione razionalistica del pensiero moderno nella ricerca della verità. Infatti, per P. Florenskij «la vita è infinitamente più ricca delle definizioni razionali e perciò nessuna formula può contenere tutta la pienezza della vita»^124 : è discontinuità nel rapporto tra invisibile e visibile, tra ulteriorità e realtà empirica, tra Dio e il mondo. Per il filosofo ortodosso tutta la realtà ‘è’ simbolo^125 , poiché essa si manifesta in modo antinomico. Il simbolo, in quanto «“fenomeno bi-unitario, spirituale- materiale »^126 , è la dimensione costitutiva, ontologica della realtà che permette all’uomo di cogliere la realtà nella sua interezza senza ridurre la natura antinomica^127 della verità in formule raziocinanti. P. Florenskij definisce il simbolo «un’entità che manifesta qualcosa che esso stesso non è, che è più grande e che però si rivela attraverso questo simbolo nella sua essenza. […] Il simbolo è una realtà la cui energia cresciuta insieme, o meglio, confluita insieme con un altro essere più prezioso rispetto a lui, contiene in sé quest’ultimo»^128. Di conseguenza, secondo il Nostro «noi non possiamo inventare i simboli, essi vengono da sé, quando ti riempi di un altro contenuto. Questo altro contenuto, come traboccando dalla nostra personalità non abbastanza capiente, si cristallizza in forma di simboli»^129. Da ciò risulta che «non
sono l’intuizione e la discorsività a dare la conoscenza della verità; essa nasce dall’anima per una rivelazione libera della stessa Verità Triipostatica, per una graziosa visita fatta all’anima dallo Spirito Santo»^130. Le riflessioni finora presentate ci permettono di comprendere perché, contro la concezione occidentale dell’immagine, P. Florenskij invita a prendere «subito la via del simbolismo [rifiutando] ogni contenuto riempito di punti che si stendono nelle tre dimensioni, per cosi dire alla “imbottitura” delle immagini della realtà»^131. Infatti, egli « assegna ai simboli una precisa e importante funzione conoscitiva, che consiste nella loro capacità di prospettare la possibile apertura delle frontiere del sapere verso un “al di là”, non ancora ospitabile dal sapere medesimo, e di anticipare i possibili sbocchi della situazione in essere »^132. Ciò significa poter cogliere ogni aspetto della ‘datità’ oggettiva del reale: infatti «il simbolismo incarna in immagini reali un’altra esperienza per cui ciò che può dare diventa una realtà superiore»^133. Per chiarire il concetto di simbolo in rapporto all’icona, P. Florenskij usa l’esempio della finestra: questa è tale quando raggiunge il suo scopo, quando cioè, facendo passare la luce, diviene luce, non più distinguibile dalla luce del sole e perciò da essa indivisibile. Se ciò non accade, essa è un semplice oggetto formato da legno e vetro^134. Nel momento in cui diviene trasparenza di luce, attraverso di essa noi vediamo ciò che altrimenti non potremmo vedere, perché alla nostra percezione tutto sarebbe equivalente al nulla. L’icona infatti è «una finestra che si apre sull’infinito, sulla luce purissima e pervadente del mistero (di verità e amore), luce dell’effondersi gratuito del Bene. La sua essenza è in questa luce indivisibile e non in una vaga somiglianza, luce stessa nella sua identità ontologica»^135. La metafora della finestra utilizzata da P. Florenskij ci aiuta a pensare la realtà simbolica dell’icona quale confine tra due mondi, in quanto strumento di manifestazione dell’invisibile nel visibile: l’icona permette cioè di abitare il ‘ luogo del confine ’ poiché essa « è uguale alla visione celeste e non lo è: è la linea che contorna la visione »^136. L’icona dunque ‘è’ simbolo poiché è una finestra posta sulla linea di confine tra il mondo visibile e il mondo invisibile. L’idea di confine è strettamente legata alla dimensione misterica del reale, alla sua ‘ datità ’ come presenza-assenza. In questo senso la realtà materiale dell’icona si apre alla sua dimensione spirituale se, in virtù della sua struttura simbolica, rinvia al suo telos : «L’abituale concezione del simbolo come di qualcosa di autosufficiente, anche se parzialmente, e di vero è radicalmente falsa, perché il simbolo è più o meno questo. Se il simbolo, essendo funzionale allo scopo, lo raggiunge, ne è realmente inseparabile, è inseparabile dalla realtà superiore da lui stesso manifestata. Se il simbolo non manifesta la realtà, significa che non raggiunge lo scopo e di conseguenza non vi si può intravedere un’organizzazione funzionale ad esso, una forma; privo di questa non è un simbolo, non è uno strumento dello spirito, ma solo materiale sensibile»^137.
vivono di una medesima vita misterica, sono integrati nel mistero liturgico»^150. Osserva D. Ferrari- Bravo: «nella liturgia ortodossa Parola (slovo) Icona (ikona) e Musica (salmi cantati, cheruvim) sono realtà intimamente legate nel senso di una profonda corrispondenza incentrata sull’immagine o rappresentazione. Entrambe sono orientate verso l’alto, verso il mondo spirituale, verso l’armonia celeste, verso l’assoluto: icona “finestra dell’assoluto”, parola “finestra sull’assoluto”»^151. Di conseguenza, come afferma E. Fogliadini, «l’arte ortodossa esiste per la liturgia e vive della liturgia. Ogni elemento delle Chiesa cristiana orientale – spazio architettonico, icone, canto liturgico, paramenti e vasi sacri – esprime il proprio autentico significato solo nel contesto della celebrazione dei Misteri divini»^152. Da questo punto di vista si comprende perché per P. Florenskij il tempio è «l’organismo compatto del rito religioso come sintesi delle arti, come l’ambiente artistico nel quale, e solo nel quale, l’icona ha il proprio autentico senso artistico e può essere fruita nella propria autentica artisticità»^153. Per comprendere il significato simbolico-liturgico dell’iconostasi è necessario soffermarsi, seppur brevemente, sul simbolismo della chiesa stessa, «così come […] lo hanno trasmesso i Padri e che è alla base tanto della costruzione delle […] chiese, quanto della distribuzione della loro decorazione»^154. La struttura della chiesa ortodossa e della Divina Liturgia rimandano all’immagine di un cammino^155 ‘dal visibile all’invisibile’ che l’uomo è chiamato a compiere per giungere al centro liturgico per eccellenza: l’altare. Se per L. Uspenskij il tempio è concepito come immagine simbolica della Chiesa e dell’universo^156 , P. Florenskij, riprendendo l’interpretazione cristologica di Simeone di Tessalonica (†1429) sul rapporto tra la chiesa e l’altare, afferma che se la Chiesa «rappresenta Cristo Dio-uomo, allora l’altare ha il significato della Divinità invisibile, della Sua natura Divina, e la chiesa del visibile, dell’umano»^157 , così che « la chiesa è il cammino dell’ascesa al cielo. È così nel tempo: l’ufficio divino, questo movimento interiore, la ripartizione interna della chiesa, conduce verso l’alto lungo la quarta coordinata, la profondità. Ma è lo stesso anche nello spazio: l’organizzazione della chiesa, andando dagli strati esterni al nucleo centrale, ha lo stesso significato. […] La chiesa […] è la scala di Giacobbe, che dal visibile eleva verso l’invisibile, ma l’altare nella sua interezza, come un tutto unico, è già luogo dell’invisibile, una sfera staccata dal mondo, uno spazio non-mondano »^158. Secondo il Nostro, per percorrere questo ‘cammino’ è necessaria la realtà della ‘doppia percezione’, sensibile (visibile)-spirituale (invisibile), così da cogliere e accogliere, partendo dalla realtà visibile, la dimensione invisibile della realtà. È per questo che «la limitazione dell’altare è necessaria affinché esso non si riveli per noi un nulla»^159. Allo stesso modo è possibile interpretare la funzione dell’iconostasi: essa, pur essendo un limite materiale, «è anche il luogo del disvelamento delle verità divine»^160 , poiché essa «rappresenta simbolicamente il sottile limite che
separa il mondo dei sensi dal mondo spirituale e le sacre immagini appaiono su di esso come le verità divine, che la ragione umana non è in grado di cogliere direttamente»^161. L’incapacità della mente umana è tuttavia superata grazie a coloro che sono «i simboli vivi dell’unione di una cosa con l’altra, in altre parole le creature sante»^162 , perché i santi testimoniano l’invisibile con il loro stesso aspetto. Sono loro stessi, con la testimonianza del loro volto trasfigurato^163 , il confine che permette di accedere alle verità divine. Se l’altare «è un luogo intelligibile, ciò significa che il confine tra esso e il mondo dovrà essere segnato da guardie vive, santi reali. [Per questo] l’iconostasi che separa l’altare è una catena di angeli, che non ci lascia spiritualmente raggiungere il mondo celeste, il luogo intelligibile. E poiché la loro presenza non per tutti e non sempre è manifesta, vengono come monito dipinte le icone, per mezzo delle quali ci eleviamo dalle immagini agli archetipi»^164. Per questo P. Florenskij può affermare che « l’iconostasi è i santi stessi »^165 , perché «loro, i testimoni, si può dire che nascono al confine tra visibile e invisibile, come immagini simboliche delle visioni durante il passaggio da una coscienza ad un’altra. […] Questo è il nuvolo di testimoni (Eb 12,1), dei santi. Circondano l’altare e con loro, le pietre vive [1 Pt 2,5], è costruito il muro vivo dell’iconostasi, perché i testimoni sono contemporaneamente nei due mondi e uniscono in sé la vita di questo mondo con quella dell’altro»^166. Il mondo invisibile e quello visibile non sono dunque separati: l’iconostasi, «barriera che sull’altare separa i due mondi, […] confine tra mondo visibile e mondo invisibile»^167 indica «ai fedeli semi-ciechi i misteri dell’altare [perché] orientare l’attenzione dei fedeli è necessario per sviluppare la loro vista spirituale»^168. L’iconostasi attira dunque lo sguardo dell’orante e stimola il movimento spirituale di colui che contempla l’icona, mediante la quale dall’immagine si risale all’Archetipo, cioè dall’economia salvifica alla dinamica intratrinitaria: «l’icona concorre così a realizzare lo scopo primario della liturgia: mettere in contatto il fedele con Dio. Essa rende infatti accessibile all’uomo il mistero del farsi uomo di Dio in Cristo, in una forma visiva che ne dice tutta la concretezza»^169. Per P. Florenskij «l’iconostasi apre nel muro delle finestre e attraverso i loro vetri vediamo, o per lo meno possiamo vedere, ciò che vi accade dietro, possiamo vedere i testimoni vivi di Dio. Distruggere le icone significa murare le finestre»^170. La funzione eminente dell’iconostasi è, dunque, «quella di aprire delle finestre»^171 , così da «vedere i testimoni vivi di Dio»^172. Questo perché, secondo la feconda sintesi florenskijana, «la finestra è luce»^173 come «l’iconostasi è una visione»^174. Pertanto l’iconostasi «è una finestra nella nostra realtà dalla quale si vedono gli altri mondi. È una breccia nell’esistenza terrena dalla quale irrompono le correnti dell’altro mondo, nutrendola e rinvigorendola. In breve: questo spazio è il culto»^175 e lo stesso luogo di culto «rappresenta in miniatura l’universo sia visibile sia invisibile; è un vero simbolo di ciò che gli occhi
al mistero di Dio. Rispetto a questa Verità rivelata che si manifesta nell’icona, N. Valentini osserva che «Florenskij assorbe in profondità questo radicamento ontologico dell’immagine – simbolo, mistero rivelato e sigillato, così come questo emerge dall’intensa ermeneutica patristica. Il simbolo viene ripensato a partire dalla forma originaria dell’incarnazione, superando ogni aniconismo veterotestamentario, e in rapporto al suo ontologismo antinomico di carne e verbo, fino alla sua estrema antinomia»^185. L’estrema antinomia è il simbolo cristico della Croce, nel quale la TriUnità rivela la Sua economia di salvezza^186. Di conseguenza «abitare il “luogo del confine” del simbolo-icona, vuol dire, in senso florenskijano, epifania del volto come mistero e insieme come rivelazione; l’aldilà del simbolo cristianamente inteso è già nel simbolo come tale, anzi è il simbolo esso stesso»^187. Se, dunque, il centro dell’iconostasi è la ‘porta regale’, la quale, in conformità al significato simbolico del tempio, rappresenta l’ingresso al Regno di Dio, allora tutto nell’edificio sacro converge verso questo centro simbolico attraverso il quale si accede al Santo dei Santi. La Porta Regale è Gesù Cristo, il quale permette all’uomo di accedere al Regno di Dio, alla Verità tutta intera, al senso di tutto: infatti “ tutto fu creato per mezzo di lui e in vista di lui ” ( Col 1,16 ). Le icone che formano l’iconostasi sono dunque simboli del Simbolo per eccellenza, Gesù Cristo: il volto di Maria e quello dei Santi rimandano al Volto di Cristo. Attraverso la Sua immagine visibile noi contempliamo la verità antinomica dell’Incarnazione, così che il Volto di Gesù Cristo è epifania del Figlio e quindi manifestazione del Padre, Dio-Amore, in un rapporto di continuità/discontinuità con la rivelazione di Dio nell’Antico Testamento^188.
4. Gesù Cristo, volto d’Amore del Padre Come il centro dell’iconostasi è la ‘porta regale’, così il centro dell’icona è il volto, simbolo della persona raffigurata. E. Scognamiglio definisce così il significato simbolico del volto: «a livello simbolico, volto è un vocabolo relazionale che coinvolge altri termini, fra cui mistero, simbolo, rivelazione, persona. […] Il volto è fatto per l’altro o per Dio e richiede un silenzioso linguaggio, poiché tocca la parte più sensibile e più viva della persona umana.[…] Quale simbolo del mistero, il volto è una porta sull’invisibile, sul trascendente. […] Simbolicamente, il volto esprime l’individuo concreto, la personalità che agisce, che respira, che si muove, che opera nel mondo, nelle categorie dello spazio e del kronos»^189. Secondo E. Sendler «il viso dà all’icona il suo significato teologico»^190 : è per questo che nella pittura di icone la tecnica di composizione del volto riveste particolare importanza^191. Nella riflessione di P. Florenskij il volto, in quanto simbolo incarnato, assume progressivamente una rilevanza ontologica e mistica, poiché «proprio in quanto tale, il volto è il simbolo per eccellenza
della persona, della sua assoluta unicità e identità, della sua autocoscienza spirituale e del suo indeducibile mistero»^192. Porsi frontalmente all’iconostasi significa dunque dirigere il proprio volto verso i volti dei Santi e, da questi e con questi, verso il Volto dei volti: Gesù Cristo. Tuttavia ciò non è sufficiente perché l’icona sia venerata: infatti, c’è una differenza tra il guardare e il vedere. Se il verbo ‘guardare’ rimanda prevalentemente al movimento del volto dell’uomo verso un oggetto^193 , il ‘vedere’ rimanda ad una costellazione di significati che, sebbene ampia, indica sinteticamente la relazione tra la percezione di una realtà concreta, la sua veridicità, la testimonianza, la contemplazione, la fede^194. E. Fogliadini sottolinea che il volto si presenta come «la manifestazione di una certa realtà e si apprezza appunto come mediatore fra conoscitore e conosciuto, come l’aprirsi alla nostra vista e alla nostra intelligenza della realtà conosciuta»^195. È necessario dunque un ‘vedere’ che sia apertura alla datità della verità che l’immagine iconica manifesta. È qui che interviene la funzione di mediazione del volto-simbolo,‘luogo di confine’, manifestazione e contemporaneamente apertura singolare e personale dell’essere dell’uomo all’altro-da-sé. Attraverso la valenza simbolica del volto si arriva ad un ‘vedere’ che è conoscenza della realtà noumenica: per P. Florenskij, infatti, «l’uomo può definirsi tale proprio grazie allo sguardo. […] L’idea è il volto dei volti, ossia lo sguardo. [Da ciò deriva che] il concetto di contemplazione o visione si congiunge qui con quello di sapere o conoscenza»^196. Chiarisce P. Florenskij: «Cos’è l’idea? È l’aspetto, la forma, la specie, non per se stessa, ma in quanto fornisce la conoscenza di ciò di cui è proprio la forma o la specie. L’idea è il volto (lico) della realtà, ma soprattutto è il volto dell’uomo, non nella sua casualità empirica, bensì nel suo sguardo conoscitivo, cioè sguardo, espressione del volto dell’uomo»^197. Di conseguenza «per comprender la natura delle idee, secondo Florenskij, è necessario confrontarsi con l’espressività del volto»^198. Da ciò deriva che, come afferma il Nostro, «il mistero del volto ( lico ) ha trovato il suo culmine nel problema dello sguardo ( lik )»^199 , ovvero del sembiante^200. Infatti «il sembiante è la manifestazione dell’ontologia»^201. Di conseguenza il passaggio dal volto al sembiante è «il passaggio dal mero apparire empirico alla sua struttura spirituale, dal suo schema decorativo all’energia trasfigurante della divina Presenza. Solo così il volto si tramuta in sguardo, manifestazione dell’ontologia»^202. Il ‘vedere’ significa dunque conoscere ciò che è al di là del volto, il significato-altro del volto: lo sguardo, il sembiante, la trasfigurazione del volto dei santi che deriva dal loro cammino di conversione a Gesù Cristo: metanoia che, come memoriale in immagini e colori, può essere contemplata attraverso l’icona. La funzione dell’icona è quindi di manifestare il sembiante di coloro che sono stati, e sono, testimoni di Gesù Cristo-Testimone del Padre^203. Colui che con fede si pone davanti all’icona per venerarla riconosce che è la Verità a donarsi originariamente a partire dal Volto di Gesù Cristo. Per questo nel volto del santo, nel sembiante, il