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testo che introduce la differenza tra anima e animus
Tipo: Guías, Proyectos, Investigaciones
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Anima e Animus, la differenza secondo Carl Gustav Jung ∗ Lidia Procesi
Premessa Anima e Animus formano una coppia di archetipi fin troppo famosa e fin troppo citata, a proposito e sproposito: l’idea che ciascun essere umano alberghi nell’intimità più segreta e ignota della propria identità un ospite sconosciuto dell’altro sesso ha generato addirittura una vera e propria moda culturale. Per quanto carica di una genealogia illustre, che si spinge fin nelle più remote speculazioni filosofico-religiose sull’androgino, quest’idea sembra stuzzicare soprattutto mille fantasie allusive e mille curiosità simpaticamente maliziose sull’eventuale effeminatezza o mascolinità dell’amico/amica, o amante, moglie/marito o fidanzato/fidanzata di turno. Non c’è rivista, giornale o giornaletto che prima o poi non senta il bisogno di pubblicare un ennesimo servizio sull’innamoramento, la sessualità, il matrimonio, il divorzio, sulla guerra tra i sessi, senza infiorettare interviste e statistiche con qualche citazione della “ sizigia ”, della coppia archetipica teorizzata da Jung. Il fascino piccante di questo plesso e “complesso” misterioso può essere enfatizzato, illustrandolo con la riproduzione tipica delle nozze chimiche tra Rex e Regina , colti nell’atto della copula, o con una divagazione erotico-mitologica su antichi amori divini. Di tutta la sua riflessione psicologica, ardua quanto l’oggetto incomprensibile da cui prende l’abbrivo, la psicosi, restano solo vaghe reminiscenze di tesi sbiadite in luoghi comuni: “Alla psicologia femminile appartiene la sfera dell’ eros e delle relazioni interpersonali….alla psicologia maschile la sfera dell’astrazione concettuale…”; “l’ Animus è uno sputasentenze, anzi, un collegio di sputasentenze…..l’ Anima è una madonna che cela sotto l’apparenza angelica la lussuria di Taide, la crudeltà di Scilla….” Jung espone la questione in termini opposti. In Aion , uno dei riferimenti canonici su quest’argomento, ribadisce quanto Anima e Animus non siano concetti popolari, abbastanza facili da capire e da concretizzare nella dimensione psicologica come altri concetti, ad esempio l’Ombra. Anima e Animus sono troppo estranei alla vita dell’io, il loro straordinario fascino, anzi, è direttamente proporzionale alla loro lontananza dall’io. Risultano per lo più ostici, incomprensibili, infine cervellotici, proprio perché è meglio lasciarli vegetare nel profondo, seguendo d’istinto la sana indicazione terapeutica, secondo cui non bisogna mai stuzzicare intenzionalmente l’inconscio collettivo, che è già fin troppo attivo con la sua presenza subdola. Proprio per questo, la nostra conversazione avrà come oggetto in primo luogo il modello psicopatologico, che Jung illustra come evidenza empirica e base clinica delle sue ipotesi, in particolare appunto per quanto concerne la comparsa degli archetipi Anima e Animus sulla scena analitica. La “controparte sessuale”, infatti, si impone e può assumere un ruolo da protagonista soprattutto quando la coesione del complesso dell’io sia fortemente minacciata. Una situazione da evitare scrupolosamente. Psicologia della traslazione illustra nel linguaggio dell’ opus alchemico la fusione, la morte e la rinascita della coppia analitica, proprio per mettere in guardia i soggetti coinvolti dalla pericolosità del contagio
psichico: mai sottovalutare la possibilità che dietro un disagio affettivo si celi lo spettro della psicosi latente, che può trascinare il terapeuta in un delirio a due, con conseguenze incalcolabili. Il primo Animus che Jung analizza, del resto, è il protagonista dell’opera di rottura da Freud, Simboli della trasformazione : è Chiwantopel, un povero “eroe di cartone”, che annuncia però l’esordio della schizofrenia della paziente. Una donna sconosciuta, una Regina alchemica, è invece la prima possibilità di salvezza per un uomo importante, probabilmente molto più famoso di quello che il segreto analitico può far trapelare, i cui sogni sono il materiale di Psicologia e alchimia. Quest’opera è un vero e proprio manifesto della “ sizigia ”, della trasformazione analitica come processo alchemico, i cui protagonisti sono Anima-Animus. I seminari clinici, infine, sono una fonte inesauribile e preziosa di sogni contestualizzati e analizzati, e sono perciò essenziali per penetrare la portata concettuale del modello psicologico, che deve sempre essere riferito o riferibile al confronto con l’applicazione clinica. Il modello teorico e clinico Una premessa importante è una definizione icastica di nevrosi data da Jung, tale da essere sottoscrivibile e condivisibile anche da modelli terapeutici ostili a qualunque dimensione di psicologia del profondo: la nevrosi è il corpo che prende il comando^1. William Blake regala una splendida immagine del corpo, che evoca magicamente quest’idea, lasciando parlare il diavolo: “ Man has no Body distinct from his Soul; for that call'd Body is a portion of Soul discern'd by the five Senses, the chief inlets of Soul in this age ”, Nella traduzione di Ungaretti: “ Nell'Uomo non c'è un Corpo distinto dall'Anima; il cosiddetto Corpo è una parte dell'Anima che i cinque Sensi, maggiori antenne dell'Anima in questo evo, discernono ”^2. Il corpo che assume la guida, non è naturalmente il corpo concreto, che “prende” il sopravvento soprattutto nelle malattie fisiche, bensì è il corpo come oggetto interno, rappresentazione, base immaginaria del sentimento dell’identità del se stesso. È il corpo a cui fa riferimento l’io quando si pensa e si definisce. Un corpo che non sarà mai oggetto di analisi del sangue e radiografie né di operazioni chirurgiche. È l’immagine fisica di sé investita da quell’affettività che fa riferimento all’io ed a cui l’io si riferisce. È l’affettività più arcaica, più propria e radicale, che garantisce la continuità e la coerenza dell’identità personale. Il proprio corpo è l’oggetto interno per eccellenza, che evoca dialetticamente la corporeità generica e costella emotivamente l’intera natura come grande oggettualità interna. Tale costellazione emotiva è l’esperienza della psiche oggettiva, dell’inconscio collettivo. Ogni oggetto interno è una sorta di fantasma, un ente immaginario, dotato però della caratteristica di aggregare e di compattare attorno a sé una notevole quota di affettività, che cattura l’interesse del soggetto. Che lo voglia o no, questi si ritrova regolarmente alle prese con pensieri, fantasie, ricordi, rovelli che apparentemente concernono qualcosa di esteriore, di fatto allontanano
Questa qualità dell’ indifferenziazione dei grovigli emotivi indistricabili, che si fanno beffa dell’io, è anche una premessa per capire l’archetipo. Archetipo è modello generico di comportamento umano standardizzato. Non ha alcun senso trattare di un’ ipotetica controparte sessuale dell’uomo e della donna, degli archetipi Anima e Animus , ignorando che si tratta appunto di stili stereotipati di comportamento, proiettati dall’immaginario collettivo sull’uno o sull’altro sesso, che si sono trasformati in uno stato d’animo a tal punto invadente e a tal punto scisso dall’io, da averne occupato la funzione surrettiziamente. Si comprende perché Jung ne sottolinei la pericolosità. Uno stato d’animo che si attualizza in un individuo nell’imitazione coatta di un atteggiamento collettivo, attribuito oltretutto tradizionalmente alla differenza sessuale, non solo rende il suo comportamento particolarmente grottesco, ma segnala un suo rifiuto esageratamente ostinato, un’autocensura così rigida da sconfinare con la dissociazione. L’altro sesso è l’ultima icona di umanità prima della depersonalizzazione, che è il destino che spetta ad un io che non sia più coerente con il suo stesso sé corporeo. Di tutti gli automatismi che minacciano la stabilità psichica, l’automa dotato degli attributi dell’altro sesso è del resto il grande protagonista della psicologia del profondo. La descrizione magistrale di Freud nel famosissimo saggio sul Perturbante ne rende una testimonianza straordinaria e insuperabile. Olimpia, la creazione di Theodor Hoffmann, la bambola demoniaca che seduce il povero studente e lo trascina alla perdizione, lo galvanizza fino al suicidio, è un capolavoro emblematico dell’ Anima. Simboli della trasformazione Una lettura cursoria dei testi essenziali di Jung può introdurre nel cuore del problema. Il caso clinico della discordia, Miss Frank Miller, protagonista di Simboli della trasformazione , illustra la dissociazione di una personalità femminile, dall’incontro con la sua ombra fino all’ Animus : il fallimento di quest’ultima figura, ultima coesione della libido attorno all’io, segna l’esordio della psicosi. Miss Miller è definita esplicitamente da Jung una sua figura di Anima. Su questo punto cruciale mi soffermerò nelle conclusioni. Tra le immagini rigogliose della sua follia, annotate nel suo diario clinico, basti in questa sede un cenno al “dramma ipnagogico” finale dell’eroe azteco Chiwantopel. In piena crisi di panico, Miss Miller ha prima l’allucinazione di una sfinge, verosimilmente la sua stessa ombra: l’io sta diventando un enigma per se stesso. Poi compare il bel Chiwantopel, armato e piumato come si conviene al protagonista di un fumetto scadente. Jung lo definisce un eroe di cartone: un dongiovanni di quart’ordine, teatrale e isterico. Miss Miller commenta nel suo diario che Chiwantopel in fin dei conti non è altro che un mosaico vivente di letture e di riferimenti intellettuali, provocato dagli eccessi della sua frenetica vita culturale. Ben altra è la serietà con cui andrebbe valutato. Un’ affettività autonoma ha animato uno spettro, Miss Miller non è solo rapita da un uomo immaginario, è ostaggio di un’allucinazione formidabile. La gravità della sua patologia mette a nudo la minaccia propria di questo archetipo. È l’ Animus della donna, la personificazione della sua componente maschile. La sua attivazione comporta la delega incondizionata dell’identità femminile al giudizio di un sé maschile fittizio, che funge da specchio al posto della riflessione dell’io. Questa la definizione di Jung:
“Chiwantopel è infatti una tipica figura di Animus, vale a dire la personificazione della componente maschile della psiche di una donna. È una figura archetipica che diventa particolarmente attiva quando per motivi di poco conto la coscienza si rifiuta di seguire i sentimenti e gli istinti suggeriti dall’inconscio: al posto dell’amore e della dedizione subentrano mascolinità, indole litigiosa, caparbia affermazione e il demone dell’opinione in tutte le forme possibili (potenza in luogo di amore)”. 3
Jung sottolinea costantemente che la pericolosità delle immagini è direttamente proporzionale alla debolezza della coscienza, che si maschera proprio dietro il commento banalizzante, “ non è altro che ”^4. L’inconscio ce l’ha messa tutta per mettere in guardia l’io, ha persino messo in scena per Miss Miller la morte dell’eroe morso da una vipera, spiattellandole di essere lei stessa velenosa e avvelenata, nella sua ostinazione a scindere l’istintualità dalla coscienza, minacciando di squilibrio il suo stesso sistema cerebrospinale, il “serpente”^5. L’io è rimasto tuttavia preda di elucubrazioni mentali, alla ricerca disperata e inutile di un significato intellettualistico delle allucinazioni, fino a soccombere. Secondo il modello freudiano, non sarebbe difficile smascherare dietro questo baldanzoso seduttore una formazione reattiva, che copre l’immagine erotizzata del padre reale di una venticinquenne, apparentemente in fuga da conflitti sessuali. Per Jung, invece, Miss Miller non sta affatto divinizzando un padre terreno, per sfuggire al suo infantilismo edipico, viceversa, ha abbandonato anche l’ imago paterna, insufficiente a dare corpo all’angoscia, e sta tentando una possibile mitologizzazione, ossia la trasformazione del fantasma che la turba in un oggetto riconoscibile, per quanto stravagante: sta comunicando la sua esperienza di una libido che non le appartiene più. La scomparsa definitiva dell’eroe è infatti allucinata in un terremoto e in un’eruzione vulcanica, che illustrano lo stato d’animo finale, il crollo dell’io, sommerso dalla sua forza e inghiottito dal suo caos: un incubo psicotico. Proprio questa terminologia nuova di Jung, che amplifica l’uomo di fantasia in una figura demonica, l’ Animus , e accantona le classiche riduzioni di questi fantasmi a tipici prodotti del narcisismo, consente di introdurre un altro nodo teorico e clinico fondamentale connesso ai due archetipi. La sua formulazione più conosciuta è data ne L’io e l’inconscio. L’io e l’inconscio. A conclusione del paragrafo dedicato ad Anima e Animus in questo suo studio classico, Jung ribadisce che intenzionalmente ha evitato di presentare queste due componenti essenziali della psiche in termini astratti, nella speranza di riuscire ad aprire al lettore un nuovo campo visivo di esperienza, abbondando nel linguaggio ridondante delle passioni:
traslazione. La controparte sessuale, come abbiamo detto, è l’espressione dell’atteggiamento più distante dalla coscienza, meno individuale, più stereotipato e collettivo, più impersonale e in questo senso, come insegnavano i romantici tedeschi, “meno umano e più divino”, quindi più vincolante, quanto è vincolante il rapport , l’antico rapporto magnetico, subito con cieca sottomissione. Poiché la relazione analitica elabora proprio gli affetti depersonalizzati e spersonalizzanti, che ipnotizzano l’io, le due immagini più aliene di quest’esperienza prendono il sopravvento. Anima e Animus vengono proiettati tra paziente e terapeuta: sono loro che si cercano, si scontrano, si galvanizzano e si fondono, e che sostengono, guidano e nutrono transfert e controtransfert. Seminari delle visioni. Un esempio molto limpido e significativo di come si avvia la traslazione e di come può essere interpretata per elaborare i contenuti inconsci, istaurando un dialogo con l’entità psichica più estranea all’io, Anima o Animus , è offerto nella descrizione dell’inizio di un importante caso, oggetto di un seminario clinico: il caso di Christiana Morgan.^9 Una giovane trentenne, molto dotata intellettualmente, una tipica mente di scienziata, si rivolge a Jung e inizia un’analisi che continuerà in un’amicizia epistolare per molti anni. La sua funzione di sentimento, la sua capacità di formulare giudizi di valore sulla realtà, è stata soverchiata dalla sua funzione pensiero, a cui compete la neutralità del giudizio, che rappresenta il successo della sua persona, il suo adattamento alla vita. Questa unilateralità l’ha scompensata e spinta all’analisi. È sposata, ha un figlio, è pienamente adulta, come ci si aspetta da una donna di quell’età negli anni ’30 del secolo scorso. Una quarantenne o cinquantenne di oggi.^10 Dovrebbe sentirsi a posto, invece è sopraffatta da un incomprensibile senso di isolamento e di fallimento, che le paralizza la vita. Nel primo sogno^11 si vede concentrata nel tentativo vano di suonare un motivo e di farsi ascoltare dalla sua famiglia, quando scopre che un uomo sta suonando una musica incomparabilmente più bella della sua. Jung le suggerisce di immaginare in quest’uomo la sua funzione di sentimento che, relegata nell’inconscio, ha acquistato un’autonomia tale da comparire in forma personificata; la supremazia di questo personaggio, messa in scena dal sogno, impedisce all’io di essere ascoltato, di “suonare bene”, di esprimere bene il sentimento. Quell’uomo interiore ha il fascino di un Dio, di un demone, è uno spettro molto potente: l’ Animus. Nel sogno successivo, il protagonista è un dottore, che abita in riva al mare: la donna non riesce a trovare la sua casa ed è disperata. Jung accantona l’idea classica che il dottore sarebbe lui stesso e il mare confermerebbe il transfert, come simbolo del lago di Zurigo, dove è ubicato il suo studio. Sono spiegazioni allegoriche, che non reggono rispetto alla qualità delle emozioni in gioco. Il dottore è una prima trasformazione del musicista, che indica quanto la donna sia desiderosa e insieme smarrita all’idea di entrare in rapporto con l’ Animus , che ora non è solo il suonatore, ossia colui che ne sa di più in quanto a sentimento, ma il dottore che, sapendone comunque di più, può salvarla dalla sofferenza, mediando per lei il rapporto con l’oceano dell’inconscio.
A conferma, compare ancora un uomo in un nuovo sogno, ma questa volta è presente anche il simbolo del rapporto con l’inconscio che questa figura sta controllando, al posto dell’io della paziente. Un pavone è appollaiato sulla sua spalla e punta col becco il suo collo. L’immagine è minacciosa. L’allegoria della vanità, del narcisismo della persona – lo stile di vita in cui è identificata la paziente - non è certo adeguata a tradurre la potenza di questo pavone, che attacca alle spalle l’uomo. Il pavone, sottolinea Jung, è un simbolo collettivo, antichissimo e universale: in Occidente è la rinascita, tant’è che S. Agostino e S. Antonio da Padova lo evocano come simbolo della risurrezione, in Oriente è il potere creativo di Dio, ma anche la volontà demoniaca di sfidarne la supremazia. Il pavone è un fantasma carico di forza che incombe sull’uomo. L’ Animus stesso è sovrastato da un’entità ancora più potente, una sorta di spirito della creazione e della rigenerazione, un simbolo dell’inconscio o, in termini di vissuto, della zona d’ombra dove è sprofondata tutta la voglia di vivere e tutta la speranza di futuro della paziente: il pavone dà forma al magma delle pulsioni, le traduce in un codice che può essere decifrato, le ricompone in una figura con cui l’io può entrare in contatto. Prendere sul serio il pavone, accantonando momentaneamente i processi mentali coscienti e lasciando fluire l’immaginazione, è l’unica possibilità offerta all’io di accostarsi al calderone alchemico, in cui ribolle quel miscuglio emotivo che ne ha destabilizzato l’equilibrio, sequestrandone la serenità. La relazione col terapeuta è fruttuosa se aiuta il paziente a escludere da sé gli stati d’animo devastanti, dando loro il contorno di personaggi, che possano mimare alla coppia analitica la sofferenza, trasformandola in una sorta di psicodramma, in cui è possibile intervenire con la funzione discriminante dell’io. Si tratta di una regressione radicale alle forme più arcaiche di pensiero, quando l’io è immerso in una relazione magica con la realtà circostante, che gli appare animata da mille poteri strabilianti e circonfusa di mistero. La funzione inferiore della paziente è sprofondata in questo mondo segreto, che si spalanca nei sogni, dove potenti animali demonici vivono insieme a maghi e spiriti guida. Per questo sarebbe vano ogni appello alla responsabilità dell’io rispetto ai vissuti incompatibili e rimossi: occorreranno molte trasformazioni per esautorare questi spettri, e molto coinvolgimento emotivo del terapeuta, per liberare l’io dall’ipnosi. La psicologia della traslazione, illustrata con l’ausilio di una serie di immagini alchemiche. Nella prefazione di un libro sul sogno dal romanticismo all’età contemporanea, Jung accetta un possibile parallelismo tra la sua psicologia e la psicologia romantica, in una continuazione ideale con la grande tradizione della filosofia della natura rinascimentale e moderna, in particolare come filosofia della medicina e alchimia^12. Da Carl Gustav Carus a Justinus Kerner a Franz von Baader, i medici filosofi sono grandi protagonisti del romanticismo, profondamente coinvolti nella psicologia come esperienza della psiche:
conoscenza simbolica collettiva restituisce credibilità e fiducia alla pressante richiesta di essere rimessi al mondo, ammutolita da un eccesso di fallimenti della comunicazione personale, individuale, convenzionale. In termini di vita quotidiana, la speranza del singolo io sofferente di riabbracciare se stesso e di sentirsi finalmente rinato, dipende anche dalla fine del suo isolamento, col riattivarsi dei comportamenti comuni iscritti nella specie, che il suo stesso panico ha sfigurato in automatismi singolari irriconoscibili, riverberati in proiezioni e affabulazioni fantasmatiche^15. L’eredità più feconda dell’alchimia è proprio nella trasmissione, di generazione in generazione, di un sapere che illustra anche oggi i processi più arcaici attraverso cui la mente ha vissuto, ha messo alla prova e ha concepito per millenni l’esperienza psicologica della sua nascita dalla natura. L’ Anima , la Regina sarà dunque la proiezione della femminilità prototipica, a cui una coscienza maschile chiede di rinascere, e l’ Animus , il Rex , quella della mascolinità, da cui la coscienza femminile chiede di essere fecondata. Sono i nuovi genitori del mondo, ossia dell’io, con le infinite variazioni del loro matrimonio, a seconda se paziente e terapeuta siano o no dello stesso sesso; accettando dunque che la richiesta censurata e inconfessabile, la più radicale che viene rivolta al terapeuta è di assumere tutti i ruoli, indipendentemente dall’appartenenza a un genere. Per quanto intricate possano essere le loro relazioni, Jung si convince che è possibile ricostruirne un robusto filo conduttore, interpretandole alla luce di questo sapere tradizionale millenario. È un immenso patrimonio di dottrine, che a ben vedere espongono l’esperienza psicologica collettiva della genesi della coscienza, nel suo erompere faticoso dalla materia inorganica e organica. Dall’antichità più remota fino alla rivoluzione dell’età moderna, la scienza occidentale ha prosperato elaborando un modello di conoscenza della natura, finalizzato a carpirne i poteri, per svelare il segreto delle origini e dei fini, dell’ordine, della vita e della morte, della salute e della malattia: in realtà, nella sua ignoranza, ha rispecchiato inconsapevolmente per secoli l’immenso immaginario che sostiene l’esperienza psicologica della formazione della coscienza e della sua conquista di sé. Lo spirito, signore della materia, si sprigiona in energia creativa, libera dalle sue pastoie e dominatrice dei suoi processi. Le strabilianti elucubrazioni dell’alchimia avrebbero prodotto un unico vero risultato: un sapere in grado di illustrare il processo psicologico del distacco dell’uomo dal suo stato di natura, sentito e concepito come appropriazione dell’atto creativo divino più misterioso e più potente. Psicologia e alchimia. La complessità di questa proposta può essere illuminata grazie a un caso clinico eccezionale, che ha prodotto uno dei capolavori di Jung, Psicologia e alchimia^16_._ Seguiamo Frieda Fordham^17 , sua amica,
interprete e biografa. Primi anni ’30. Un giovane scienziato, una mente brillante, lo contatta, in preda a una grave nevrosi. L’inconscio è pericolosamente attivo e debordante^18. L’uomo produce una ricchezza straordinaria di sogni e visioni dal potente tono emotivo^19. Jung lo affida a un’allieva, che lo analizza per cinque mesi, quindi lo lascia proseguire da solo per altri due mesi, fino al successo conclusivo. Da questa gravissima crisi esistenziale nasce Psychologie und Alchimie , in cui è serbato rigorosamente il suo anonimato. L’esordio delle visioni mette subito in scena l’ Anima. Dopo i primi sogni, che attestano l’avvio autonomo di questo processo, il soggetto produce due visioni in successione immediata. Dapprima un serpente che lo attornia, descrivendo un cerchio al cui centro si trova egli stesso, piantato come un albero. Il commento rinvia solo all’immagine antichissima e potentissima del rito che crea una zona sacra e protetta, in cui dar corso a operazioni magiche: è l’incontro protetto con l’inconscio, un’immagine che procura sollievo. Compare una figura femminile velata, seduta su una scala. È l’ Anima , la donna sconosciuta. Jung spiega che una personificazione esprime l’attività autonoma dell’inconscio. La scala è l’immagine della via iniziatica che il sognatore si appresta a compiere: una discesa in se stesso, una risalita oltre se stesso. La donna scopre quindi il suo volto, che risplende come il sole. In termini alchemici è la solificatio , l’illuminazione: l’urgenza di capire il processo che sta devastando la coscienza, si presenta in forma estremamente estranea all’atteggiamento razionalistico, tipico dell’io^20. La cultura raffinata e l’intelligenza prodigiosa del paziente esclude ogni appello alla ragionevolezza e alla comprensione intellettuale: consigli che l’uomo saprebbe già darsi da solo, appelli insulsi, ridicoli, impotenti rispetto a stati d’animo che vivono diabolicamente di vita propria. La distanza dell’io da se stesso è invece rappresentata in modo coerente alla sua violenza emotiva: la donna sovrumana comincia un dialogo con l’io e gradualmente resuscita nel suo immaginario la tradizione ermetica, la philosophia occulta , l’alchimia e la sapienza rinascimentale. Si sospendono le conoscenze scientifiche e l’antica magia della natura riprende la sua funzione di specchio, che riflette e amplifica al suo adepto la sua stessa emotività, ricreando l’armonia perduta con la psiche oggettiva. Si apre un cammino dal noto all’ignoto, parallelo al percorso e al destino dell’alchimia:
“Tutto ciò che è ignoto e vago viene riempito di proiezioni psicologiche; è come se nell’oscurità si rispecchiasse il retroscena psichico dell’osservatore. Quanto egli vede e crede di riconoscere nella materia è costituito soltanto, in un primo tempo, dai dati del proprio inconscio che egli vi proietta; egli scopre cioè nella materia qualità e significati possibili che apparentemente le appartengono, ma la cui natura psichica è
Terza fase, l’ingiallimento, la citrinitas : è l’annuncio del sorgere del sole, col suo rosso fiammeggiante, che segna la forza della tintura maschile, vittoriosa sulle tenebre, il Rex. Il fuoco, l’energia torna a riscaldare e animare l’io e il suo mondo, già morto e sepolto nella nigredo. Ora la terra verdeggia - la citrinitas è anche la viriditas - la terra sterile è di nuovo feconda. Lo sposalizio di Luna e Sole genera il filius philosophorum , meta ultima dell’ opus , che in questo contesto terapeutico, possiamo limitare all’idea di elisir, di panacea. L’esperienza terapeutica corrispondente è sentirsi di nuovo in sé, se stessi: essere se stessi è la migliore panacea. Se stessi: un io mortificato rinasce, si sente di nuovo e finalmente padrone a casa sua. Gli affetti contrari, esasperati tra mortificazione e angoscia, si sposano in un equilibrio nuovo, come nel connubio tra le due tinture. Nel modello di Jung, la relazione Anima Animus fa scaturire dall’inconscio i simboli universali del Sé, una funzione psicologica che libera l’io, rinchiuso nel carcere della sua solitudine, morto e sepolto nella tomba della sua stessa individualità, e lo armonizza in una relazione ricca e consapevole con il proprio mondo affettivo, con il mondo affettivo altrui, con la vita. È il simbolo psicologico della totalità, da cui nessun singolo può sradicarsi senza perire. Tradotto in uno stato d’animo, è l’appagamento che deriva dal sentirsi finalmente in pace con se stessi. Il Sé è oggetto di uno scritto fondamentale, Aion, in cui un intero capitolo è dedicato alla “sizigia”, alla congiunzione astrale fondamentale, alla conjunctio oppositorum di Anima e Animus , Sol et luna nel cielo dell’inconscio collettivo. La sizigia: Anima e Animus****. L’ opus alchemico sarebbe dunque una straordinaria ricostruzione di fantasie collettive durate per millenni, in cui generazioni e generazioni di sapienti, passati alla storia come philosophi per ignem , continuarono di fatto ad attribuire i processi affettivi ignoti della coscienza e dell’autocoscienza generiche allo specchio altrettanto ignoto della natura. Prima lentamente, poi a velocità irresistibile, la scienza vera e propria rinunciò a questo sapere farraginoso e inconcludente, cresciuto a dismisura in un ammasso ingestibile di nozioni ingarbugliate e contraddittorie, e accantonò il mondo magico. Secondo una terminologia tipicamente moderna, purificò la natura dai “fantasmi dell’immaginazione”, facendo astrazione dalle “passioni dell’anima”. “Ma che cos’è questo fattore generatore di proiezioni?”^23. Con questa domanda Jung introduce la sizigia. Le nozze chimiche sono il modello della relazione provocata dalla proiezione. In termini elementari, la proiezione accompagna l’incapacità o il rifiuto incosciente - spontaneo e automatico - di vagliare le proprie reazioni di fronte a un’esperienza e a uno stato d’animo: consiste perciò nell’associazione arbitraria di fantasie incontrollate a un qualunque fatto. Il soggetto “sposa indissolubilmente” elementi eterogenei, come un dato e un vissuto subitaneo, perché momentaneamente quel “qualcosa” in cui si sta imbattendo è solo un’occasione ghiotta e irrepetibile per dar corpo a qualche suo spettro, ossia per “proiettare” emozioni riposte, con cui da un pezzo sta giocando a rimpiattino. Detto fatto, il povero “qualcosa” si magnetizza, si carica del fantasma: da questo rapporto scaturisce un prodotto nuovo, un vero e proprio parto dell’immaginazione, una pura fantasia che sostituisce però completamente il
primo “qualcosa” e assume per l’autore della proiezione una concretezza massiccia, un realismo assolutamente inconfutabile, proprio perché si è radicato nel presupposto implicito della completa incoscienza e irresponsabilità. Il legame inconscio, già potentissimo, tra due opposti, l’io e i suoi fantasmi, si trasforma in una vera e propria unione matrimoniale tra l’io e il suo complesso, sancita ufficialmente nella realtà, che a quel punto è letteralmente invasa e assimilata all’illusione. Una dinamica che riconosciamo subito nella malattia mentale, perché il folle è ostaggio di spettri, preda di incomprensibili assurdità, ma che difficilmente ammetteremmo nella vita quotidiana, che tuttavia è la prima palestra di questo eterno esercizio psichico. Le prime proiezioni riguardano l’Ombra: tutti gli aspetti della nostra personalità che restano “in ombra”, o perché appartengono al passato, o perché potrebbero appartenere a un altro adattamento, magari probabile in futuro, o perché sono stati rimossi dall’educazione o perché sono per noi una fonte di disagio e ci sforziamo di dimenticarcene o di tenerli accuratamente nascosti. In quest’ultimo caso, l’Ombra è il nostro coinquilino antipatico, il nostro sosia scomodo. Ci assomiglia fin troppo, un gemello imbarazzante ma più facile da riconoscere e da sopportare. Molto più difficile è riconoscere nell’altro sesso una propria proiezione, una propria personalità inferiore inconscia. La proiezione, suggerisce Jung in Aion , nasce dall’illusione di ricreare con gli oggetti il rapporto primitivo fusionale del neonato, del lattante, quando la mamma è il mondo e il mondo esiste per suo tramite. Il capitolo sulla sizigia si apre con una tipica descrizione del complesso materno del maschio. Non è la madre reale o la sorella reale, la donna in carne e ossa a esercitare tanto fascino, viceversa, l’immagine collettiva della femminilità, congenita nella specie, può essere proiettata inconsapevolmente in tutta la sua potenza grandiosa e primordiale su una qualunque donna in carne e ossa, trasformandola in una divinità benefica e terribile, fonte di vita e di alimento, grembo accogliente per i vivi e per i morti, e insieme avida e lussuriosa, vendicativa e mortifera. Quando la proiezione è ritirata, la donna reale torna alle sue proporzioni quotidiane, e l’io è obbligato al confronto con l’immagine collettiva, l’ Anima. Lei, la Signora, si materializza spontaneamente dall’inconscio e suscita un mondo mitologico dove si comunica con un lessico enfatico, appropriato al suo vissuto esagerato, che si fa beffa di ogni traduzione in concetti o precetti del buonsenso. Perciò Jung insiste sull’importanza di questo linguaggio nemico dell’intellettualità. Nelle vicende quotidiane, la madre si fa carico delle proiezioni di Anima da parte del figlio maschio e ne favorisce il dissolvimento, proprio grazie alla sua capacità di assumersi concretamente le sue funzioni pedagogiche. L’equivalente per la donna è l’ Animus : anche il padre, come la madre, sostiene l’immagine divina della mascolinità, assecondandone il graduale dissolvimento, nell’adempiere al suo ruolo educativo e affettivo con la figlia. L’immagine controsessuale attinge i suoi componenti da tre fonti fondamentali: la relazione con il genitore dell’altro sesso, centrale per la personalità adulta; la minima parte di eredità genetica dell’altro sesso che appartiene a ogni individuo, infine l’ immagine ereditaria collettiva dell’altro sesso. Come stereotipi, Anima e Animus presentano tratti ben marcati e riconoscibili. Posto che alla donna apparterrebbe la sfera delle relazioni interpersonali, la gestione della vita privata, e all’uomo la sfera delle relazioni oggettive, la gestione della vita pubblica, entrambi si produrranno in una caricatura degli atteggiamenti tipici. Nelle parole di Jung:
da cui è un imperativo separarsi, se si sia stati giocati dal magnetismo delle proiezioni e ci si sia invischiati nel duello sterile tra Anima - Animus. Conclusione L’ Animus resta a mio parere una figura molto confusa rispetto all’ Anima. Prescindendo dalle perplessità che suscita la vecchia distinzione tradizionale, obsoleta, tra eros come dominio femminile e logos come dominio maschile, molte descrizioni di donna- Animus rispecchiano i ruoli rigidi, gli stereotipi sociali tipici del ceto medio, nell’Europa tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Un ceto medio e medio-alto protagonista dell’innovazione terapeutica psicoanalitica, che ha trasformato le povere isteriche di Charcot nelle “donne sull’orlo di una crisi di nervi” di Almodovar. Tant’è che Jung ironizza su quanto la sarta e il parrucchiere risolvano alla donna i problemi di vanità femminile^25 , senza interrogarsi se stia parlando della “donna” o solo di una cerchia ristrettissima di signore medio-alto borghesi, di una microscopica briciola cronologica. Jung insiste sulla qualità di logos inferiore dell’ Animus , che produce opinioni dogmatiche al posto di giudizi, pretende con insistenza fastidiosa di avere sempre ragione: descrive insomma tutti caratteri dell’insicurezza intellettuale, senza chiedersi se le pazienti non stiano portando in analisi soprattutto l’ immenso disagio sociologico, tipico dei soggetti a cui non si dà credito aprioristicamente. Quando si parla dell’ Animus in questi termini, è opportuno immaginarsi piuttosto l’avvilimento e il livore di persone abituate a non essere mai prese sul serio, e addirittura condizionate a comportarsi automaticamente come chi si attribuisca da solo, per primo, un’inaffidabilità e un’inferiorità strutturale e congenita, pur di ricevere un riconoscimento, un’approvazione collettiva. Donne obbligate alla puerizia per sopravvivere, tentando tutt’al più di cambiare le cose dall’interno, con un atteggiamento conciliante, facendosi tollerare, nella speranza di qualche piccolissima conquista. L’ Animus sembra la risposta rabbiosa e sterile di vittime come la Nora di Ibsen, condannate a un ruolo sciocco e irrealistico di eterne bambine giudiziose, prigioniere delle loro case di bambola, tutte artificio e puerilità. L’arroganza difensiva, la saccenteria, la petulanza, la coazione a pontificare sono solo la maschera del risentimento e del rancore per gli eccessi di emarginazione culturale; l’ Animus è l’esercizio di una vendetta defatigante e inconcludente, per schiere di donne incastrate nella parte dell’eterna prima della classe o della segretaria indispensabile, della governante tuttofare o della santa donna, truffate e rapinate della loro libertà intellettuale, dall’omertà della cultura maschilista. Certo, dobbiamo riconoscere a Jung un’imparzialità nello smascherare i difetti di Anima e Animus , che le concezioni classiche dell’invidia del pene e del fallicismo femminile ignorano: l’analisi dell’ Anima è soprattutto l’invito perentorio al maschio contemporaneo a integrare la sua femminilità rimossa, pena la catastrofe individuale e collettiva. Non bisogna sottovalutare che l’ultima riflessione di Jung, impegnata drammaticamente nell’apocalissi della seconda guerra mondiale, insiste sull’urgenza di riconoscere i diritti della femminilità archetipica repressa, emarginata fino alla schizofrenia dalla cultura patriarcale e maschilista dell’Europa moderna e dell’Occidente in generale. Una posizione che ha suscitato contro di lui un coro unanime di disapprovazione radicale. Jung stesso, infine, dichiara di aver dovuto riconoscere per
primo l’unilateralità del suo razionalismo^26 , di averlo dovuto pesantemente ridimensionare, proprio accettando di dare ascolto alla sua controparte sessuale, imparando ad ascoltare l’ Anima , per quanto gli ripugnassero i suoi contenuti. Nella sua autobiografia, Jung introduce la sua Anima a ridosso della rottura da Freud: è una voce femminile che si intromette nel corso dei suoi pensieri per dire la sua. Sostiene che il suo corpo a corpo con l’inconscio è arte. Jung dapprima la contraddice replicando che è natura, poi, pentito di averla ammutolita, le fa spazio, offrendole letteralmente il linguaggio dell’io, per trasformare il suo sgradevole interferire in un interloquire, ben più fruttuoso.^27 Un passo dal seminario del 1925^28 illumina il coraggio con cui Jung si sottomise a quell’enorme lavorio psicologico che lo portò a integrare la sua funzione inferiore, ridimensionando proprio i suoi punti di forza, le sue sicurezze intellettuali. Scopriamo così la particolare importanza delle fantasie di Miss Miller:
“Miss Miller era una figura della mia Anima – spiega Jung – portatrice della mia funzione inferiore, della quale io stesso ero assai poco cosciente. Sul piano cosciente io ero una “funzione di pensiero”, ero cioè abituato a sottomettere i miei pensieri alla direzione più rigorosa, e quindi il fatto di “fantasmare” era un processo mentale che, letteralmente, mi ripugnava. Esso andava contro tutti gli ideali intellettuali che mi ero forgiato, e le mie resistenze erano così grandi che potei ammetterlo soltanto tramite il processo di proiezione del mio proprio materiale in quello di Miss Miller (…) Il libro sollevava dunque il problema della funzione inferiore e dell’ Anima ”.^29
Un’importante integrazione di questo plesso sembra infine realizzarsi oggi nei cambiamenti profondi della cultura collettiva rispetto all’omosessualità. La fenomenologia dell’ Animus , tuttavia, resta molto carente, in confronto alla millenaria immagine della donna archetipica. In particolare questo cosiddetto logos inferiore stride con le varie figure di governanti e governatori, di salvatori e di perseguitati, di seduttori, di bellimbusti, di campioni sportivi, di fuorilegge e di terroristi, che affollano l’inconscio femminile, come altrettante varianti delle sirene ammaliatrici, delle etere lussuriose, delle candide verginelle, delle muse ispiratrici, delle provvide infermiere o delle terribili kapò e delle amazzoni che affollano l’inconscio maschile.
Emma Jung, Animus e Anima , Bollati Boringhieri, Torino 1996, introduzione a cura di Marie Laura Colonna, pp. 12-16.
magnetico dovuto all’ Anima , per poter intraprendere liberamente il suo dialogo-duello con l’ Animus. La sua ricetta analitica le prescrive di dargli ascolto, per quanto le costi, perché l’ Animus le chiede di “concentrarsi sulle questioni oggettive anziché sui problemi umani”^33. Questa lettura mi offre una premessa per accennare alla mia ipotesi interpretativa. L’ Animus si presenta come messo di un’ambasciata dell’inconscio, che propone all’io femminile di ridimensionare drasticamente un eccesso di maternage e di oblatività, di rêverie materna esercitata a sproposito. Qualunque sia l’oggetto momentaneo, le critiche distruttive dell’ Animus hanno sempre di mira una falsa femminilità di facciata, a cui l’io s’aggrappa con pigrizia e malafede.Questa correzione suscita il sospetto che l’attivazione dell’ Animus sia dovuta al salto delle iniziazioni femminili, a un blocco nel passaggio generazionale di consegne da donna a donna, in cui avrebbe un ruolo secondario l’immaginario collettivo maschile. Per devitalizzare l’ Animus , si tratterebbe dunque di intercettare e vagliare ogni automatismo pseudo-materno, istallatosi al posto dell’armonizzazione di questo ruolo nel complesso dell’io, e quindi agito senza minima cognizione di causa. La donna continuerebbe a scimmiottare in totale incoscienza uno stereotipo di fantasia, coinvolgendo irresponsabilmente se stessa e gli altri in questa relazione abusiva, sterilizzandosi in una pura mimesi di vita femminile adulta. L’imitazione puerile di ruoli propri dei maschi rappresenterebbe solo una maschera molto superficiale di questo grave intralcio psicologico. L’interpretazione del “maschio mancato”, finora vincente, avrebbe funzionato come un vero specchietto per le allodole, distogliendo la riflessione delle donne dal proprio sé corporeo. In questi termini si spiega anche l’esito della dissoluzione dell’ Animus indicato in Aion , ossia l’integrazione della madre ctonia, il riassorbimento dell’onnipotenza di madre-terra nella vita quotidiana di una donna adulta. Per illustrare a conclusione la mia linea di pensiero, propongo un sogno di Animus presentato da Emma Jung, confrontando la sua interpretazione e la mia lettura personale, e riallacciandomi alla definizione di nevrosi che ho dato all’inizio. Se la nevrosi è il corpo che prende il comando, quando il comando è preso dall’ Animus , bisogna cercarne la base e la radice nel sé corporeo femminile e interpretarne la funzione e la disfunzione a misura delle funzioni e delle disfunzioni che sono esclusivo appannaggio di questo corpo e di questo sé. Il sogno dell’Animus Ho scelto questo sogno, perché è vivido e chiaro, presentato senza le associazioni personali della paziente. Emma Jung illustra con il suo materiale clinico la rinuncia dell’ Animus a soggiogare la coscienza e la rinascita che ne segue. Lo schema dei sogni di cui fa parte è incentrato sul sacrificio, che si compie nei termini universali del rito religioso: il sacrificio dell’uomo comporta un sacrificio analogo del Dio. L’io compie un sacrificio all’ Animus e ne viene potenziato. L’ Animus accetta il sacrificio dell’io e sacrifica a sua volta il suo potere, restituendo all’io la parte che gli spetta. È una tipica drammatizzazione del rapporto tra l’io e l’inconscio.
“l’amante della ragazza è uno spirito che vive sulla luna e che a ogni luna nuova viene sulla terra a ricevere un sacrificio di sangue, che la ragazza deve compiere per lui. Durante i periodi di intervallo la ragazza vive liberamente come un qualsiasi essere umano, ma quando la luna nuova si avvicina lo spirito la trasforma in una bestia feroce che, spinta da una forza irresistibile, deve salire su una vetta solitaria e lì offrire un sacrificio all’amato. Tuttavia il sacrificio trasforma lo stesso spirito lunare: egli diviene il vaso sacrificale che si consuma per poi rinnovarsi, e il sangue fumante assume una forma simile a una pianta dalla quale germogliano foglie e fiori variopinti.” 34
Emma Jung commenta che il sacrificio della libido trasforma lo spirito maligno in vita. Certo, la libido che carica l’inconscio di simboli deve tornare all’io, per l’equilibrio esistenziale, ma in questi termini il sogno perde la dimensione simbolica e si traduce in un’allegoria risaputa dello scopo dell’analisi.^35 Il sogno ripeterebbe nel suo linguaggio il desiderio dell’io di riottenere a tutti i costi l’energia perduta nella depressione, la sua voglia di vivere. Nonostante le immagini mitologiche, il sogno non direbbe nulla che non coincida con il primo contenuto dell’analisi: l’ aspettativa di tornare a fiorire, la paura di non riuscirci, la tentazione di scappare. Simili traduzioni, per quanto appropriate, sono inutili: l’eccesso di simbolismo del sogno se ne infischia della ragionevolezza e si dispone in casi analoghi a incastrare la coppia analitica nella ripetizione dei luoghi comuni terapeutici, fino a decretarne il fallimento. L’interpretazione offre la scoperta dell’acqua calda mascherata da mistero, in stile rococò: non solo dà per diagnosticata la fonte della sofferenza e la sua soluzione, ma cesella la diagnosi con mille particolari luccicanti, come una pubblicità della terapia. Sa tanto di “foglia di fico”, che copre le resistenze del terapeuta. Secondo il mio parere, aderendo il più possibile alla corporeità femminile, il sogno fa incontrare all’io il fantasma assetato di sangue del suo stesso sé corporeo, e glielo presenta evocando violentemente con i simboli il vissuto della paziente più contraddittorio e perciò più dissociante, più paralizzante: la paura, il disgusto e insieme il desiderio smanioso di completare la propria iniziazione alla femminilità adulta. Sono questi grovigli emotivi di pari intensità e di segno opposto a bloccare la mente, tanto più quando ne và dell’integrità del corpo, che le è affidato. Sottovalutare o ridimensionare la valenza specificamente femminile del sangue significa incorrere in una vera e propria mistificazione. Ricordiamo che le pulsioni fisiologiche più istintive sono trasfigurate in personificazioni di fattori emotivi potentissimi, capaci di manovrare l’io come una marionetta: i cosiddetti Dèi. Quanto più la fisicità è estranea tanto più il soggetto è trasferito in un mondo extra-umano. Diventare bestia, per la paziente, significa perciò semplicemente rinunciare a questa divinizzazione abusiva e tornare su questa terra, animale tra gli altri animali, corpo vivente. Un buon suggerimento dell’inconscio. Solo il sangue versato ogni mese può trasformarla da una vera e propria extraterrestre, da una ninfa amante della luna, in un sano animale terrestre: è evidente nella svalutazione della “bestia” e nella sopravvalutazione della “ninfa”, quanto costi a questa donna essere tale, in carne e ossa. L’inconscio si esprime solo per enigmi , perché riflette l’ enigma del dissidio radicale che